Foto di scena ©Tomas Ivanauskas

Dreamspell, semplicità e incanto

Lo Strindberg lituano di Kamilé Gudmonaité

All’origine di tutto, quando Brahma, l’antica potenza divina, si lasciò tentare da Maya, Madre del mondo, il contatto fra il divino e la materia generò il peccato originale del cielo. Tutto il mondo allora deriva da un peccato ed è soltanto apparenza, fantasma, illusione. Così annotava Strindberg nel suo Diario occulto riferendosi al Sogno, un compendio delle miserie umane ritratte con grande pietà e tormento in una serie di scene che riproducono proprio i meccanismi della logica insensata del mondo onirico. Come rappresentare allora un testo dove tutto può succedere, dove non esiste tempo, spazio né trama, bensì solo un misto di ricordi, esperienze, assurdità, come dice l’autore stesso nella nota iniziale?

La risposta è in Dreamspell della giovane regista lituana Kamilé Gudmonaité, che costruisce una partitura profonda e rigorosa a partire proprio da frammenti del Sogno (“Ett drömspel” in svedese) di Strindberg. Se secondo Jung “il sogno è uno dei prodotti più puri d’una costellazione inconscia”, fin da subito la regista ci catapulta in uno spazio onirico paranoico, dominato dal contrasto tra bianco e nero e costellato da elementi di una religione orientale dai tratti eterogenei. Ecco che la figlia di Indra, scesa sulla Terra per vedere da vicino come vivono gli uomini, è sostituita qui da un giovane uomo alle prese – insieme a un Lord cancelliere e i tre decani di diverse facoltà – con il ‘Mistero della Porta’ dietro cui si nasconde il segreto della vita. Aprire o no quella porta che nasconde verità pericolose? come se questa fosse il corrispettivo di un’altra tentazione: l’albero della conoscenza della Genesi che costerà ad Adamo ed Eva la cacciata dall’Eden, per aver compiuto l’atto di ribellione per eccellenza. Ma qual è la forza che frena il desiderio di ribellione?

Foto di scena ©Tomas Ivanauskas

I contorni si dissolvono, l’intreccio logico cede il passo alla giustapposizione di immagini; così, in scena si susseguono cori, danze, mentre le parole rifuggono dal loro significato abituale. Il ritmo è ipnotico grazie all’energia dirompente degli attori (Mantas Zemleckas, Danas Kamarauskas, Gražvydas Staigvilas, Balys Ivanauskas, Aurimas Bačinskas, Gytis Laskovas), sprigionata in un’interpretazione anti-naturalistica che parte proprio dall’espressività del corpo, il quale non illustra ma evoca simboli e crea un nuovo linguaggio non intellegibile, da ricomporsi nella mente del sognatore – il pubblico. Eccoci allora in una classe. Tre scolari tutti uguali, simbolo inequivocabile del conformismo, osservano lo scontro tra il crudele e opprimente Maestro e l’Ufficiale desideroso di emancipazione. La ribellione ritorna come un rimosso insieme al problema dell’identità all’interno di un sistema già precostituito. E se si pensa a un Paese come la Lituania, liberatosi da relativamente poco dal dominio sovietico (1990-93), il problema identitario assume un significato ulteriore, su cui gli autori delle nuove generazioni continuano a interrogarsi.

Foto di scena ©Tomas Ivanauskas

Usciamo di sala smarriti, come quando, appena svegli, abbiamo in mente le immagini di un sogno senza riuscire a esprimerle. In questo spazio di indeterminatezza, però, quei significati profondi del testo di Strindberg – la ricerca tormentata verso un senso della vita che li racchiuda tutti – vengono portati alla luce con l’estrema chiarezza illogica che può avere solo un sogno.

Ascolto consigliato

Teatro India, Roma – 24 ottobre 2015

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