Foto di scena. ©Manuela Giusto

Tornare all’origine

Con 'Apparecchio' Francesca Blancato si confronta con la solitudine della vecchiaia

La vecchiaia, si sa, è regressione: la tensione continua verso l’origine da cui ci si è allontanati, per poi tornare; è l’aggrapparsi a quei piccoli gesti quotidiani e abitudinari, capaci però di custodire la consapevolezza di chi si è, di far sentire ancora ancorati a terra dentro un’identità che pian piano svanisce. Così è per l’attrice, drammaturga e regista Francesca Blancato in Apparecchio – spettacolo da lei scritto e diretto presentato al Teatro dell’Orologio dopo una prima fase di studio – che su di sé accoglie la solitudine di una vecchiaia dai tratti familiari e affettuosi, nel tentativo di fondere il ricordo del nonno Amleto con una drammaturgia che mantiene però intatta l’impronta della sua fisicità e del suo pensiero.

Siamo in un ospizio, ma poco importa saperlo, perché qui lo spazio rappresenta soltanto l’anticamera della morte dove i ricordi si confondono con la realtà, l’infanzia con il presente, le apparizioni con le presenze vere. Fra pochi oggetti in scena avvolti nell’oscurità (disegno luci Martin Emanuel Palma), appartenenti a un mondo fermo in un tempo che non sa di essere finito, ecco avanzare Blancato nella sua fragile figurina in abiti da uomo troppo larghi. Sembrerebbe quasi un vecchio Krapp ma il suo nome – curiosamente – è Amleto, anch’egli alle prese con i fantasmi del passato, non fosse che nel mangiacassette, invece della sua voce registrata, Blancato ascolta le fiabe o le canzoni d’altri tempi, raccontando pezzi di sé con parole asciutte, spezzate, confuse tra il ricordo, la routine sempre uguale, il dialogo immaginario con il compagno di stanza Mario, e celandone altri negli sguardi malinconici persi altrove.

Foto di scena ©Manuela Giusto

Ciondola per il palco con difficoltà e circospezione questo buffo e goffo anziano non-anziano, forse una condizione troppo ibrida la sua: da un lato non abbastanza naturalistica per essere credibile fino in fondo (e certo l’aderenza “naturalistica” non è l’intento di Blancato, per questo la voce troppo bassa, come la camminata difficoltosa, appaiono quasi una forzatura) e dall’altro troppo ancorata ad una realtà verosimile e di stampo personale per poter attribuire a questa solitudine una valenza metaforica di più ampio respiro.

Tuttavia, questo mondo interiore ancora in divenire ci si schiude innanzi con grande delicatezza, sentita partecipazione e squarci di tenera ironia grazie all’interpretazione di Blancato che con timidi cambi di registro esplora una condizione di senilità abbandonata, tristemente attuale, muovendosi negli interstizi più quotidiani, sofferti e, perché no, anche petulanti. Uno specchio in qualche modo già conosciuto o prima o poi destinato ad esserlo, in cui è impossibile non riflettersi.

Foto di scena ©Blu Mambor

Così, quando tutte le parole crociate sono completate, le caramelle Rossana mangiate, le Pagine Gialle sfogliate, al nostro Amleto/Blancato rimane l’anelito a quella condizione originaria che non può che rispondere al nome di “mamma”. Un’invocazione che è un ultimo struggente desiderio di vita e insieme sentore di fine imminente.

Ascolto consigliato

Teatro dell’Orologio, Roma – 30 ottobre 2016

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