Piccolo e squallido carillon metropolitano – Davide Sacco

Piccolo e squallido carillon metropolitano – Davide Sacco

Sarà capitato a tutti, durante la propria carriera scolastica, di svolgere un tema dal titolo “descrivi la tua famiglia”. Per Mimì, una delle protagoniste di Piccolo e squallido carillon metropolitano, certo sarebbe un compito difficile: dovrebbe rendere conto di “fratello ricchione”, “fratello sconosciuto” e ultimo, ma non per importanza, il pesce rosso Fefè. È questa la famiglia sui generis tratteggiata dall’autore-regista Davide Sacco: due fratelli orfani, Mimì (Eva Sabelli) e Mimmo (Orazio Cerino) – che vivono in un’imprecisata periferia degradata del Sud – sono sconvolti dall’arrivo del fratello Ettore (Giovanni Merano), che dopo anni di assenza viene a scombinare gli equilibri familiari, portare alla luce vecchi rancori sopiti e, forse, anche una possibilità di riscatto.

Qui tutto è evocato, ma mai mostrato. Di questa casa bianca si vede solo l’impalcatura; dei santini, le madonne e i crocefissi che ingombrano la stanza non c’è traccia, come non ce n’è del degrado della periferia. Sul palco invece si manifesta la volontà di creare simbolicamente un’atmosfera fiabesca, extra-quotidiana, pervasa dall’incanto di un carillon, che da espediente formale si trasformerà poco a poco in elemento portante, nella storia stessa.

“Tiriamo una linea” – recitano a turno i tre personaggi – una linea che divida la gioia dalla malinconia, il male dal bene, il bello dal brutto: e il bello, per tutti e tre, è rappresentato proprio da quel carillon, regalo della mamma che durante l’infanzia li proteggeva da qualsiasi cosa. È come se il tempo si fosse fermato a quel momento, e ora fosse impossibile affrontare la realtà. Ecco che allora Mimì rimane una trentenne incatenata in un corpo di bambina, mentre Mimmo è fagocitato da una routine alienante che non gli lascia tregua, ed Ettore scappa, tornando solo per restituire una parvenza di normalità alla sua famiglia.

Se a prima vista il testo di Sacco sembra risentire di qualche ingenuità drammaturgica, questa viene ben presto compensata dalla volontà genuina di esplorare alcuni dei nodi fondamentali del nostro presente: come la difficoltà di vivere serenamente l’omosessualità, o la paralisi di una vita provinciale in cui il cambiamento sembra impossibile.

L’aspetto più originale, tuttavia, va cercato proprio nell’idea stessa del carillon, refrain che si insinua in ogni aspetto dello spettacolo: se ne sente sempre la melodia incessante, i suoi ingranaggi contagiano i movimenti e la recitazione, volutamente antinaturalistici; e non dimentichiamo che gli attori compaiano spalle al pubblico, animandosi proprio sulle note del carillon, quasi fossero anche loro dei giocattoli.

In fondo, cos’è la normalità? Avamposto teatro ne sposta l’asticella in un luogo indefinito, forse inesistente, dominato da un’unica sicurezza: la solitudine. Un possibile rimedio alla sua tirannia, allora, sarà proprio aggrapparsi a quei rapporti affettivi che sono così problematici, dolorosi eppure essenziali. Perché ogni famiglia, per quanto disfunzionale sia, è pur sempre una famiglia.

Ascolto consigliato

Fontanone del Gianicolo, Roma – 29 agosto 2015

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