Come può essere felice un uomo che non crede in sé stesso?
Basterebbe questa piccola perla di saggezza per restituire la preziosa semplicità dell’ultima creazione di Franca Valeri. Chi si aspetta però uno spettacolo comico in vecchio stile, tutto freddure e mossette, da abbonata del giovedì pomeriggio come piace dire, c’è da rimanere delusi, non fosse altro per la trasversalità generazionale.
All’Argentina si apre il sipario e subito ci appare la stessa Valeri; nonostante l’immediato scroscio di applausi, omaggio d’altri tempi, ciò che salta immediatamente all’occhio è qualcos’altro. La scenografia non ha nulla di pomposo e tantomeno di rassicurante (scene Alessandro Chiti | luci Michelangelo Vitullo), tutto ha un sapore grezzo di metallo, le quinte sembrano lastre di una fabbrica abbandonata; la postazione in cui è seduta l’attrice è una base rotante incassata in un triangolo schiacciato (emblematica dell’abbandono in cui versa la cultura dei padri), quasi fosse lo scantinato della struttura superiore, in cui al di là di un velo, dalla fantasia altrettanto ferrigna, si scorge la stanza da letto di Oderzo Maria Bosforo. Detto “Odo”. Detto da lei. E qui si entra subito nella storia.
Lui (Urbano Barberini) è un uomo di mezza età, ricchissimo erede, eterno scapolo, apatico, silenzioso con tutti tranne che con lei, anzianotta raffinata e ironica, ex amante del defunto padre di lui, matrigna-amica-confidente che ha sempre qualche battuta e buon consiglio da dispensare. E poi c’è la giovane Gallette (Alice Torriani), metà amante metà escort, donnetta senza classe, arrampicatrice sociale che tenta di convincere lui a sposarla solo per “sistemarsi”.
Grande presente assente e motore invisibile dell’intera commedia è appunto la figura del padre, con il quale Oderzo non è mai riuscito a confrontarsi e di cui, anzi, ha sempre patito l’aura di prestigio, così ora in età adulta si reca da lei per scoprire chi fosse suo padre e di rimando chi egli stesso non sia mai riuscito a diventare. I continui incontri fra i due si trasformeranno in un caustico e divertente momento di passaggio generazionale: lei rappresenta per lui, insomma, la stazione di sosta dove tentare un arduo cambio di cavalli di responsabilità.
Peccato però che lei, con la sua signorile ironia, sia ormai al capolinea, mentre lui che dal padre ha ereditato solo i soldi non riesce neanche a imparare più: ci appare così il quadro dei nostri tempi, uno spaccato sociale in cui il ritardo di consegna (culturale, etica, storica) si fa cronico e auto-compiaciuto: Amleto non vendicherà il padre, perché il padre non è stato assassinato e il figlio si è ingrassato con pensieri flaccidi. Una visione affilata, deliziosamente velenosa, quella offerta da Franca Valeri che nonostante i suoi novantaquattro anni si conferma osservatrice acutissima della società.
E in questo impossibile Cambio di Cavalli (regia Giuseppe Marini), d’altronde, non è difficile scorgere il monito preoccupato di una madrina della cultura italiana: troppa mollezza, troppa ipocrisia, troppa vanità. Ma con il suo micidiale sarcasmo e la sua grande saggezza, Franca Valeri ce lo dice senza dirlo, o come afferma il suo personaggio: “Ma no, la mia non è sicurezza, è equilibrio”.