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Dentro il limite per superarlo

Hyperion, o del nobile febbrile ascetismo di Lenz

Furioso (1), Kinder, Furioso (2) e (3), MacBeth, Autodafé, Hyperion, Romeo and Juliet. Sembra il lungo percorso di una carriera e invece no, queste sono le produzioni solamente di un anno: da novembre 2015 a novembre 2016. Stiamo parlando di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, in arte Lenz, la storica compagnia di teatro di ricerca che ha sede poco fuori dal centro storico di Parma, in un’ex fabbrica convertita a fucina teatrale, latrice di un dialogo urbanisticamente già evidente tra archeologia industriale e vocazione poetica.

Caratteristica ricorrente, questa, nel percorso di ricerca di Lenz, sempre tesi a riscoprire, o meglio, a riattivare l’anima dello “scarto”, sia esso il rifiutato, l’abbandonato o il dimenticato, come conferma ad esempio il lungo percorso (dal ‘98) con attori con disabilità psichiche. Una meta-fisica perturbante che è superamento (meta) del corpo (fisica) attraverso non tanto un’ascesi bensì un’immersione consapevole nei recessi più nascosti dell’io.

Come notavamo in apertura, la prolificità di Lenz è sorprendente, e lo è tanto più per due ragioni che sono reciprocamente opposte: da un lato perché, nonostante la qualità, non si ha l’impressione di lavori “tirati via”, concepiti tanto per rientrare nei tempi di bandi, finanziamenti, debutti, no, il rigore di Lenz, indipendentemente dall’efficacia degli spettacoli, è inappuntabile; dall’altro perché ormai, per assistere ai loro lavori, o si va a Parma o è quasi se non del tutto impossibile vederli altrove. Insomma, la loro è una virtuosa anomalia all’interno del – alquanto perverso – sistema delle produzioni: si penserebbe che per combattere questa macchina bisognerebbe fare meno e meglio e distribuirlo capillarmente, invece no, Lenz ribaltano il teorema proponendo un curioso ascetismo febbrile.

Non è un caso che una delle opere a cui siano più legati – e alla quale sono tornati più e più volte durante questi trent’anni di attività – sia l’Iperione (1792-99) e più in generale Friedrich Hölderlin (negli anni ‘90 portarono in scena quasi tutte le sue opere). Figura chiave della letteratura occidentale, il poeta tedesco segna quel contro-neoclassicismo di fine Settecento che prenderà il nome di Romanticismo: contro le certezza della razionalità che tutto può prevedere, misurare, concepire, i romantici aprono una crepa che accoglie i dubbi, li lascia drenare e proprio a partire da essi porta l’uomo a elevarsi.

Al contrario di quel romanticismo che tenderà a farsi maniera, scadendo nel pittoresco o in una contro-arcadia medievale affollata da cavalieri, fanciulle, spade, segreti, segrete, coboldi, demonî, spettri e bollenti spiriti (da lì poi l’uso che ne facciamo oggi di “romantico” e “gotico”), Hölderlin invece fu genio mediatore fra la filosofia e la poesia, ovvero fra la riflessione e l’azione.

Il suo Iperione (già titano padre del Sole o il Sole stesso, nella mitologia greca) non ci parla, infatti, di una Grecia classica idealizzata ma di una Grecia moderna in rovina, in cui – proprio a partire dalle rovine –si riaccende l’aspirazione a un’armonia divina. Ben lungi dal rappresentare il cliché dell’eroe romantico che si immola per le idee, Iperione incarna piuttosto l’uomo che nell’accettazione di una condizione inalterabile riscopre un senso di appartenenza più profondo.

Condizione che Hegel in quegli stessi anni chiamava “Sapere Assoluto”, dando a intendere non tanto il “sapere tutto” illuminista bensì il riconoscere i propri limiti come atto di inclusione.
Insomma, non possiamo capire (dal lat. capĕre, cioè afferrare) tutto perché in realtà siamo parte del tutto.

Nella spoglia Sala Majakowski del Lenz Teatro c’è solamente un grande figura circolare (ecco il nostro “tutto”), è un tondo perfetto che si alza verticalmente da terra, sul fondo, proiettando davanti a sé una larga ombra. Dal basso sorge la sagoma di Iperione:

«Nulla ho, che possa dire mio.

Il mio lavoro su questa terra è finito.»

Siamo in una dimensione di sospensione che l’ambiente sonoro del musicista polacco Paul Wirkus infonde di umori umidi, gocciolanti, sotterranei. Sopra – o sotto, chissà – potrebbe esserci la fine del mondo, o forse c’è addirittura già stata: la voce di Iperione ha quell’inquieto e placido distacco di chi osserva e non vuole dominare.

«Sono uno dentro il tutto.
[…]
Penso e il mio pensare mi costringe a essere solo.»

Tutto è giocato sulla parola interiore che coglie la sua impotenza ma al contempo non può smettere di vibrare. Quel cerchio si fa così metafora (le videoproiezioni che lo riempiranno, “immagini inconsistenti”) di divinità, di sole, di perfezione, di compiutezza – fosse anche l’ideale, più privato, più “piccolo”, più illusorio (perché illusoriamente più “possibile”) dell’amore – cui l’uomo tende e più vi tende più gli sarà precluso (perché in realtà se ne allontana).

Statuario, minimale, denso (46 minuti), come sempre scenicamente affascinante, Iperione non è sicuramente uno spettacolo immediato e il sua estremo rigore, a nostro avviso, non riesce a mediare fino in fondo tra la dimensione rituale (in cui nessun elemento deve predominare sugli altri) e l’essenza della parola poetica hölderliniana che – teatralmente parlando – non emerge pienamente, intrappolata in una declamazione troppo calcata e algida.

Ciononostante non possiamo fare a meno di scorgervi una sincera confessione-identificazione del virtuoso (auto)isolamento di Lenz, che con onestissima coerenza continuano a perseguire – proprio alla maniera di Iperione – la loro impossibile ma inesausta ricerca.

Hyperion è l’irrequietezza di questa condizione. Hyperion è l’intuizione che una perfezione non può esistere e che forse non è mai esistita. Ma anche la consapevolezza che «Il nostro sapere – scrive Žižek – è irriducibilmente ‘soggettivo’, non tanto perché siamo per sempre separati dalla realtà-in-sé, ma precisamente perché siamo parte di questa realtà, perché non possiamo elevarci al di sopra di essa per osservarla ‘oggettivamente’.»

Ma soprattutto:

«Lungi dal separarci dalla realtà, il limite del nostro sapere  il suo carattere inevitabilmente distorto, incoerente  è ciò che testimonia la nostra inclusione nella realtà

Ascolto consigliato

Natura Dèi Teatri, Lenz Teatro, Parma – 26 novembre 2016

Crediti ufficiali:
HYPERION
dall’Hyperion di Friedrich Hölderlin
Musica Live electronics | Paul Wirkus (P) – artista residente
Drammaturgia | imagoturgia | Francesco Pititto
Installazione | elementi plastici | regia | Maria Federica Maestri
Performer | Valentina Barbarini | Adriano Engelbrecht
Luci | Alice Scartapacchio    

Foto | Francesco Pititto

Cura | Elena Sorbi
Organizzazione | Ilaria Stocchi
Comunicazione | Francesca Bicchieri    
Ufficio stampa | Michele Pascarella

Produzione | Lenz Fondazione

Grazie


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