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Dire no

La ribellione di Bartleby torna quieta e struggente nell'assenza di Muta Imago

Se con Fare un fuoco avevamo lasciato i Muta Imago alle prese con le gelide terre dello Yukon, in Bartleby — secondo capitolo della trilogia dedicata ai “Racconti americani” – li ritroviamo invece nella Wall Street del 1853, tempio della nascente espansione finanziaria degli Stati Uniti. Quello fra natura selvaggia e civiltà non è l’unico contrasto che salta all’occhio fra i due racconti-spettacoli messi in scena dalla compagnia romana: curioso è infatti notare che, se il protagonista di Fare un fuoco era fin troppo coraggioso, l’anziano avvocato/narratore nato dalla penna di Herman Melville è invece un uomo pacato e bonario, al riparo da qualsiasi pericolo della vita. Un giorno, però, il pericolo gli piomba direttamente nello studio: è Bartleby, il nuovo scrivano, nonché uno dei personaggi più enigmatici, eccentrici e commoventi della letteratura moderna.

Chi è Bartleby? Gli studiosi si sono arrovellati per anni concependo le teorie più disparate (fra cui: un nuovo Gesù Cristo o Lucifero, precursore di Kafka e Camus, metafora del tracollo letterario di Melville o della condizione dell’artista, e ancora Bartleby autistico o vittima della società pragmatica americana) per cercare di comprendere il laconico scrivano che da un giorno all’altro si rifiuta di scrivere e di fare alcunché, declinando le cortesi sollecitazioni del suo datore di lavoro con un cristallino: “avrei preferenza di no”; eppure non se ne viene a capo, come sarebbe impossibile del resto interpretare l’insetto de La Metamorfosi di Kafka. Così, Muta Imago non fa altro che amplificarne il mistero in un’atmosfera quasi da thriller, complice la voce narrante Riccardo Fazi, sempre misurata e attenta a ogni cambio impercettibile di registro, le note minacciose composte V.L. Wildplanner e le immagini in bianco e nero che nel frattempo si susseguono su uno schermo rettangolare.

Immagini che sfumano da visioni più astratte e oniriche, come a rimarcare il mondo impenetrabile di Bartleby, ad altre più intelligibili, quali il paravento dietro cui lo scrivano osserva il mondo, le soggettive concitate dell’avvocato da un calesse in corsa o i grattacieli odierni di New York (video di Maria Elena Fusacchia), quasi a voler suggerire un cortocircuito – soltanto accennato – tra l’America di ieri e quella di oggi, tra il capitalismo nascente e il suo risultato, quella nuova società produttiva nata ai tempi di Bartleby in cui lui proprio non si riconosce (qui infatti il pericolo non è di soccombere alla natura, come in Fare un fuoco, ma implodere nella società stessa).

Così, nell’accogliere l’inerzia della contemplazione e rifiutando la logica del profitto, nel disintegrare qualsiasi filtro tra sé e le convenzioni sociali e tra sé e il mondo circostante, Bartleby osa fare quello che nessuno può permettersi, né al tempo di Melville, né tantomeno ora: vivere secondo le proprie “preferenze”, anche se questo vuol dire, in ultima istanza, rifiutare la vita.

Pur non offrendo particolari letture drammaturgiche del racconto e attraverso un efficace dispositivo la cui compenetrazione di linguaggi riesce abilmente a intercettare tempi di suspense, come la sottile ironia o l’angosciosa aspettativa, Muta Imago fa riverberare sullo schermo l’enigmaticità di un personaggio senza tempo in tutta la sua potenza incomprensibile e allo stesso tempo magnetica. Perché forse l’inquietante tensione e il fascino ultimo di Bartleby risiede proprio nella sua quieta e struggente ribellione alla società; nel suo rifiuto ad essere capito, compatito né tantomeno salvato da nessuno.

Ascolto consigliato

Teatro Brancaccino, Roma – 27 novembre 2016

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