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Strange Mercy – St. Vincent

Nella lunga e faticosa gestazione di questa recensione mi sono imposto un dogma: non dovrò mai citare il sacro triumvirato della musica al femminile contaminata dall'elettronica, costituito da Bjork, Tori Amos e Beth Gibbons. Questo almeno per un paio di buoni motivi.
Il primo è sicuramente la totale mancanza di appeal delle suddette artiste agli occhi del pubblico hipster, motivo per cui Paper Street potrebbe decidere immediatamente di troncare la nostra breve ed intensa relazione.

Il secondo è maggiormente legato a tematiche personali, specie alla mia sarcastica immaginazione. Ascoltando queste voci angeliche, faticosamente intente nello scavarsi luminosi cunicoli attraverso gelidi sintetizzatori e drum machines implacabili, a seconda delle giornate, le immagino talora come mitologiche imperatrici di Metropolis, talora come sirene spiaggiate in uno sfasciacarrozze.

Dunque, per cercare di contenere i tentacoli di questo disco, animati dalle vibranti frustate della chitarra di Annie Clark e rivestiti da beats secchi e taglienti, ho cercato di immaginarmi un altro triangolo costituito da Kate Bush, Alison Goldfrapp ed Eleanor Friedberger. Capisco, anche Goldfrapp è poco hip. Però calza.

Strange Mercy inizia con una citazione, il delicato Chloe in the Afternoon (L’Amour l’après-midi) del regista Eric Rohmer, che nelle mani di St.Vincent diventa una favola dark fetish, dalle sonorità sospese ai limiti dell'interrogativo. La canzone inciampa nel ritornello e finisce presto, lasciando spazio ad un paio di colpi che potrebbero chiudere da soli il disco e l’intera faccenda. Il singolo Cruel rasenta il ballabile e si colora di arabeschi a la Grace Jones preparando il terreno, raso al suolo dalle bordate dello splendido ritornello di Cheerleader. Il disco regge comunque il colpo per tutta la sua durata, senza palesi perdite di concentrazione e costellato di altri momenti memorabili quali la outro di sintetizzatori chic vintage di Surgeon, una Dilettante in odor di Feist e il bel finale accalorato di Year of the Tiger.

Il punto di forza è sicuramente da ricercare nella figura della Clark, che tiene strette le redini su un discorso compatto e senza fronzoli, canta in modo impeccabile e tratta la chitarra come uno strumento, una volta tanto, moderno. Per contro, il disco è spigoloso, mai del tutto conciliante, privo di un vero e proprio momento di pausa, sottilmente permeato dell'infernale clangore delle città e del modo squisitamente femminile di vivere le nevrosi quotidiane.

E ora, siccome non riesco mai a impormi le cose: Bjork, Tori Amos, Beth Gibbons.

Grazie


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