©Daniel Spoerri Kinderstuben Fallenbild (2014)

Teatro da mangiare?

Le Ariette aprono la nuova stagione del Teatro di Roma

Tante, troppe volte torniamo a chiederci a chi si rivolga il teatro, o meglio, quale pubblico riesca ad attirare. Perché – non nascondiamocelo – oggigiorno le arti performative faticano a mantenere una vocazione popolare: il pubblico c’è, sì, ma è fortemente circoscritto; e spesso molto del migliore teatro di ricerca non sembra sforzarsi particolarmente di parlare una lingua comune: chi ha le giuste chiave culturali entra, gli altri si sentono esclusi e si disinteressano a priori. Insomma, il discrimine – anche quando involontario – è forte. Dal canto suo, poi, la macchina statale non fa faville quanto a investimenti, informazione, diffusione del contemporaneo. Si pensi anche solo ai grandi nomi: quanti italiani hanno mai sentito parlare di Latella? Perché Emma Dante non è tanto conosciuta quanto Sorrentino o Baricco o Capossela? È la presenza in televisione a dettare la rilevanza nazionale?

Al suo secondo anno di direzione, Antonio Calbi decide di dare un segnale, magari non proprio immediato ed esplicito, ma concettualmente forte: il Teatro di Roma apre a tutti, la cultura non è una questione di estrazione. A qualcuno suonerà un po’ retorico, forse partigiano, chissà, ma visto che la carta stampata sembra aver rinunciato a una mediazione culturale responsabile, proviamo a intercettare ciò che il solito paginone-intervista di comodo non dice. Ovvero. Inaugurare la stagione del neoconvertito teatro nazionale con la compagnia “contadina” Teatro delle Ariette significa dichiarare che il teatro, innanzitutto, è un rito sociale.

Nessuna apertura maestosa per questi tempi di magra, si ricomincia dal basso, dalla preziosa frugalità di un pasto consumato assieme. Questo è il piccolo grande evento che inaugura la nuova stagione del Teatro Argentina. Saremo una trentina appena di spettatori, è il direttore stesso ad accompagnarci per i corridoi del teatro, varchiamo così una porta di servizio e ci ritroviamo d’improvviso in una grande sala, spoglia, poche luci, al centro una lunga tavolata apparecchiata alla buona, nell’aria un profumo di pane appena sfornato, ed eccole lì le Ariette, che stendono la pasta, trafficano tra i fornelli, impiattano gli antipasti. Ma dove siamo capitati, in una cucina? No, non ce ne rendiamo ancora conto, ma in realtà siamo proprio sul palco dell’Argentina.

Circa vent’anni fa, Paola Berselli, Stefano Pasquini e Maurizio Ferraresi – in arte, appunto, Teatro delle Ariette – decidono di ritirarsi in campagna e ricominciare daccapo: coltivano un podere nel bolognese, a Castello di Serravalle, allevano pecore e galline, raccolgono grano, frutta e verdura, recuperano insomma le antiche tradizioni del passato, quando il biologico non era una scelta etica o una moda chic ma l’unica maniera di interagire con la natura. Immaginano allora un altro modo, più genuino, di pensare il proprio vivere e quindi di fare teatro.

Foto di scena ©Marco Caselli

Teatro da mangiare? (lo spettacolo è del 2000, e conta oltre novecento repliche in tutta Europa) è la summa di questa responsabile e sincera rivoluzione. Riuniti attorno al tavolo, mangiando di quegli stessi prodotti coltivati e cucinati dalle stesse Ariette, ascoltiamo il racconto ispirato, toccante e felicemente pasticciato della loro vita: una storia dal sapore verace, ruvido e intenso come una canzone di Tom Waits (↑ ascolto consigliato) , come la prosa romana di Pasolini, o come quelle stesse tagliatelle integrali alle nocciole e rosmarino consumate assieme. Un naso da clown, una parrucca bionda, una rete per le olive: è un teatro immediato, onesto, semplice e inestimabile, fatto di canzoni, aneddoti, battute, dolori, fotografie e ricordi. Uno spettacolo che non lascia nessuno indifferente: al fioco lume della candele, sono molti gli occhi che brillano in penombra. Il Teatro da mangiare si trasforma in vero e profondo nutrimento.

Foto di scena ©Marco Caselli

Quando, infine, a sorpresa, il sipario si aprirà rivelando il fasto elegante di questa sala del Settecento, un misto di meraviglia e imbarazzo schiude le labbra dei commensali: la platea è vuota, eppure tutti noi spettatori ci sentiamo quasi attori; non attori di una finzione però, attori di un rito, il nostro rito. Per quattro giorni (forse non abbastanza perché agisse capillarmente) il teatro è diventato di tutti.

Foto ©Roberto Scarpetti

Se vogliamo che rimanga davvero “un teatro di tutti”, allora, anziché sperare o sentenziare, sarà il caso che ne intuiamo la responsabilità collettiva. Impariamo dalle Ariette, impariamo l’arte dell’accoglienza.

Ascolto consigliato

Teatro Argentina, Roma – 12 settembre 2015

In copertina: ©Daniel Spoerri Kinderstuben Fallenbild (2014)

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