OcchiSulMondo e il riflesso perduto della meraviglia
Al Brecht di Perugia va in scena 'Alice Dragstore'
Specchio. Lampadine, trucchi, lustrini, smalti, parrucche. Anzi no, lo specchio sulla scena di Alice Dragstore non c’è. Lo specchio giace assente sulla linea di proscenio: quando gli attori guardano verso la platea, in realtà, stanno osservando sé stessi. Ma quando il pubblico guarda gli attori in cosa si riflette?
Sembrerebbe proprio questa, grattando un po’ la superficie delle maschere, la sfida lanciata dalla compagnia umbra OcchiSulMondo. Protagoniste del loro ultimo spettacolo sono cinque drag queen: Bunny, Mad Pussy, Caterpillar, The Queen e la novellina Alice (D. Aureli, R. Toccacielo, S. Cristofani, A.C. Capitanelli, M. Svolacchia), che proprio come l’eroina carrolliana da cui mutua il nomignolo, è approdata nel mondo drag alla ricerca di meraviglie.
Sulla scena semi-spartana del Teatro Brecht di Perugia, però, di incanto ce n’è poco: le pareti verticali dello stanzone stringono l’azione in uno spazio angusto (scene Francesco “SKY” Marchetti, disegno luci Gianni Staropoli). Oltre lo specchio in proscenio appena qualche sedia, un tavolino qua, un vecchio televisore là, e quelle grucce cariche di vestiti sgargianti che sul fondo delle quinte nere pendono come tante identità posticce—sogni di trasformazione rimasti impiccati. Nell’anticamera dello show, infatti, c’è molta meno esuberanza di quanto ci si aspetterebbe, e la nostra Alice smarrita, affamata di sorprese, scoprirà ben presto che dietro le maschere regna tanto cinismo, tanta rassegnazione, tanto dolore.
Essere «drag» diventa essere l’apoteosi della maschera: annullare completamente l‘uomo e trasformarsi nella pura immagine; ma tutto questo ovviamente ha un prezzo. Ne è la testimonianza la burbera e autoritaria Queen, tratteggiata come una matrona in malinconica e schiva decadenza, che nascosta dietro le quinte appare sempre più schiacciata dalla propria ombra, quella stessa che per troppo a lungo ha allontanato da sé.
Con Alice Dragstore, dunque, il regista e drammaturgo Massimiliano Burini sembrerebbe spingerci a riflettere e a rifletterci in questo eterno camerino che in fondo è la vita: una continua preparazione a quel grande show che alla fine non arriva mai. Il confronto, però, fatica a scattare: le immagini sono troppo connotate per concedere lo spazio a una metaforica identificazione (la disparità attoriale dei cinque interpreti, a sua volta, non aiuta); la vicenda frammentaria di questa Alice, nonché il rimando solo accennnato ai personaggi carrolliani, inscatola infatti l’intero spettacolo in una narrazione che oscura lo specchio della quarta parete senza riuscire a trasportare la riflessione oltre la scena, se non di tanto in tanto con sortite monologiche che sono, sì, significative ma al contempo esplicite e isolate perché infondano un respiro effettivamente più ampio alla rappresentazione.
In fondo tutti siamo lo specchio distorto e frustrato di quel che vorremmo essere. È solo accettando la nostra semplicissima normalità, proababilmente, che possiamo affacciarci senza timori alla vita.
Ascolto consigliato
Teatro Bertolt Brecht, Perugia – 20 febbraio 2016
In apertura: ©George Condo Double Portrait in Grisaille on Silver, 2014