Foto di scena. ©Giulia Caira

Lo stupro di Lucrezia – Valter Malosti

Coscienza fredda e desiderio caldo van disputando così.

Il verso dice bene cosa sia stato Lo stupro di Lucrezia, spettacolo fuoriuscito dall’adattamento teatrale di Valter Malosti, accostatosi al poema narrativo di William Shakespeare attraverso la traduzione di Gilberto Sacerdoti. Dice bene perché contiene senza segregare il dramma affidato ai giovani attori Alice Spisa (Premio Ubu 2013 nella categoria under) e Jacopo Squizzato. Con loro, di scena al Teatro Vascello dal 3 all’8 dicembre, lo stesso Malosti.

In proscenio giace un cadavere coperto da un lenzuolo bianco, a piedi il pugnale con cui Lucrezia si dà la morte dopo essere stata violata da Sesto Tarquinio, figlio dell’ultimo re di Roma. Qui un primo indizio, l’epilogo della vicenda consegnata alla storia come la cacciata dei Tarquini da Roma ha importanza nulla. Conta invece la zona di palco adattata a quadrato di ring, perché è su di essa che la coscienza fredda di Lucrezia e il desiderio caldo del suo stupratore lotteranno come corpi nudi (e lo sono integralmente per la quasi totalità del dramma) in una danza speculare.

Vittima e carnefice sciabordano gli argini del ruolo, sconfinano la nudità stessa. Il gusto di sudore che raggiunge la platea ne sottolinea l’acre inganno. La promiscuità dei corpi è anche contatto percolato tra la poesia del modello e l’adattamento. La vicenda coesiste con l’attualità, come i teschi della scenografia sono ospiti di un freezer.

Sesto Tarquinio, dopo aver sentito le lodi tessute a Lucrezia dal marito Collatino, si fa bestia smaniosa di possesso, innescando un meccanismo che pare identico a quello che macchia di rosso troppe cronache dei giorni nostri. Nel viluppo verbale, fisico e sonoro scivola anche Malosti, che lentamente trapassa dal ruolo di narratore voyeur a quello di Collatino. Un impasto umano che si sbatte tra i riferimenti del mito e l’ignobile penetrazione dell’umano.

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