Foto ©Filippo Milani

‘Il Prezzo’ dell’identità ebraica

Miller secondo Massimo Popolizio e Umberto Orsini

Perché gli ebrei hanno tutti un naso così grande? Perché l’aria è gratis.

Potrebbe sembrare una battuta antisemita, invece è una tipica espressione della cultura ebraica. Viene chiamata Jüdischer Witz, barzelletta in Yiddish ed è la rappresentazione dell’umorismo ebraico.

Nel tempo questo spirito sarcastico ha contaminato la narrativa ebraica americana, fino a diventare l’emblema del cosiddetto «Jewish American Movement»: scrittori nati e cresciuti in America, figli di quella Terza Diaspora che all’inizio del secolo trapiantò milioni di ebrei, dai ghetti dell’Europa alle moderne città d’oltreoceano. Samuel Bellow, Bernard Malamud, fino ad arrivare allo spirito critico e laico di Philip Roth, autori che nei loro romanzi hanno tentato di descrivere la condizione dell’ebreo periferico, sradicato tanto dai ghetti quanto dalla sua cultura plurimillenaria, alla perenne ricerca di una propria identità nel nuovo mondo.

Su questa scia si muove la drammaturgia di uno dei pilatri del teatro americano, Arthur Miller. Ebreo di seconda generazione, anche se la sua opera può sembrare distante dalla cultura ebraica, ne ha mantenuto alcune caratteristiche imprescindibili.

Il Prezzo, messo in scena da Massimo Popolizio in occasione del decennale della scomparsa del drammaturgo, incentra la sua struttura narrativa proprio sull’ironia.

La scena si apre in un appartamento in disuso pieno di mobili accatastati. È la vecchia casa di due fratelli, Victor (Popolizio) e Walter (Elia Schilton). I due si ritrovano per sgomberare l’appartamento e per farlo Victor, spinto dalla moglie Esther (Alvia Reale), ha ingaggiato un vecchio commerciante ebreo Solomon (Umberto Orsini).

Foto ©Filippo Milani

Con la sua straordinaria capacità di osservazione, sensibilmente psicologica, Miller ritrae i personaggi in maniera minuziosa, cogliendoli in dialoghi serrati, inserendo le singole battute in un quadro realistico. La regia di Popolizio rispetta la volontà dell’autore e crea una messa in scena perfettamente aderente: niente è lasciato al caso, ogni passo, ogni pausa è studiata in maniera da rendere al meglio il testo. Emergono così i lati più complessi della drammaturgia di Miller, ponendo in risalto quell’entourage intellettuale americana di stampo ebraico che ha condizionato il livello culturale di un intero continente.

Solomon, il vecchio commerciante, è l’incarnazione degli ebrei di prima generazione, emigrati in America per costruirsi una nuova identità. Nostalgico eppure attaccato al futuro, nonostante l’età egli ha ancora voglia di continuare a lavorare. Victor, invece, mantiene il ruolo del buffo e patetico perdente, introducendo così un altro tema caro alla narrativa ebraica: la rassegnazione; l’abbandono alla fatalità di un destino avverso, segnato da una sofferenza fine a sé stessa e per di più voluta.

Foto di scena ©Filippo Milani

Inoltre, al centro della drammaturgia del Prezzo si incardina il tema del disfacimento della famiglia, non più luogo di affetti e protezione, ma covo di sopraffazione e individualismo. Ecco allora che i legami crollano quando crollano le quote in borsa, così alla fine si corre ai ripari, cercando di dare un prezzo non solo ai beni materiali ma perfino ai sentimenti e alle relazioni.

È questa la vera crisi raccontata da Miller, una crisi che travalica i problemi di ogni crisi economica ponendo davanti agli occhi degli spettatori il vuoto d’identità della società moderna.

Teatro Argentina, Roma – 20 ottobre 2015

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