Foto di scena ©Martina Ferro

Being Norwegian – Roberto Rustioni

Sarà capitato a tutti – o quasi – di trovarsi vis-à-vis con qualcuno da cui si è attratti, magari in un luogo tranquillo, in intimità, e sentire scorrere nelle vene un febbrile nervosismo ansiogeno che fa sentire estranei e inadeguati alla situazione. Lo sguardo che schizza da una parte all’altra, braccia e mani che diventano improvvisamente ingombranti – mancano sempre le tasche in queste occasioni -, e la testa, vuota di argomenti interessanti, che propone solo frasi compromettenti: è la descrizione del primo incontro tra adolescenti. Tuttavia, se questo “embarrassing moment” riguarda un più esperto quarantenne e una donna sui trenta, ogni cosa assume un tono bizzarro, anomalo, intrigante. Ed è proprio ciò che raccontano Roberto Rustioni (anche regista) ed Elena Arvigo (anche traduttrice) in Being Norwegian (del drammaturgo scozzese David Greig), in scena al Teatro Vascello (produttore insieme a Associazione Fattore K).

La serata di Sean, scozzese d’hoc, e Lisa, norvegese d’origine o, forse, di auto-adozione, iniziata in un pub, prosegue nell’appartamento di lui per intuibili intenzioni. Qui, tra un divanetto, cartoni di pizza, lattine e tanto disordine – sopravvivono, da un anno, gli scatoloni del trasloco -, in questa piccola caotica isola sospesa dalla realtà, ogni minimo gesto si riempie d’inedita malizia, i tentativi d’avvicinamento diventano un incolmabile riflesso di solitudine e timidezza che si sfoga in ripetuti diversivi, e i secondi sembrano separarsi in un’irresistibile attesa infinita. Qui, le emozioni umane esplodono come reazioni violente alla frenetica e disumanizzante vita quotidiana, all’incapacità di intessere relazioni, di condividere istintivamente sguardi, parole e silenzi.

La pungente sintonia interpretativa di Rustioni e Arvigo dà vita a due personalità opposte e complementari, che cercano la propria identità mossi da un lacerante senso d’irrequietudine, di rabbia e di rassegnazione: l’uno, rockettaro – fermo agli anni Novanta – dal losco passato, tanto sicuro di sé da dimostrarsi taciturno, impacciato e inesperto; l’altra, nevrotica provocatrice dalla rapida parlantina, sfoggia un’originale verve scandinava con la quale trasforma il dialogo in una sofisticata arma seduttiva di humour, ironia e frivolezza.

Si rivelano poco per volta, questi frustrati sognatori rapiti dalla speranza nostalgica di un’esistenza più quieta, più monotona, più “norvegese”, dove la banalità e la semplicità ritrovano la loro originaria preziosità e umanità. E noi spettatori, eccezion fatta per i norvegesi presenti in sala, veri o presunti, osserviamo con desiderio e, perché no, un pizzico d’invidia, questo ri-scoperto luogo dove ci si può perdere negli occhi dell’altro senza remore, dove si possono tenere lunghi discorsi senza mai aprire bocca, dove basta il buio e una musica senza suono per lasciarsi avvolgere nel calore di un abbraccio.

Sala Studio, Teatro Vascello, Roma – 5 novembre 2014

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