Liberarsi dal giogo del talento
Doping e solitudine nel caso Schwazer di Scarpetti
Il problema del talento è un tema estremamente affascinante. L’idea che esistano attività, discipline, lavori o svaghi per cui qualcuno è dotato di un’inclinazione naturale va a intaccare molte scelte di vita. Cosa succede infatti se questa prezioso talento in realtà non ci interessa, non ci piace, non ci rende felici? Un’eventuale rinuncia è esercizio di libero arbitrio o spreco di un dono?
Nel mondo dello sport professionistico il tema è esploso in tutta la sua forza al momento dell’uscita di Open, l’autobiografia di Andre Agassi, quando l’ex numero 1 del mondo di tennis – e autentica icona internazionale dello sport a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila – confessò di avere a lungo odiato il suo sport e i sacrifici e le pressioni cui fin da bambino ha dovuto sottostare per raggiungere l’eccellenza. Rivelazioni clamorose che aiutarono il libro a diventare un bestseller mondiale.
La storia di Agassi viene in mente quando si prova ad avvicinare la parabola del marciatore altoatesino Alex Schwazer, oro olimpico nella 50 km di marcia a Pechino 2008 e successivamente squalificato per doping alla vigilia dell’Olimpiade di Londra, dove avrebbe dovuto difendere il titolo.
È proprio al centro di questa vena scoperta che attraversa la vita degli sportivi, ma anche degli artisti, che si colloca 28 battiti, monologo scritto e diretto da Roberto Scarpetti, e interpretato da Giuseppe Sartori (storico attore della Compagnia Ricci/Forte), prendendo spunto dalla vicenda-Schwazer.
Sulla scena un uomo solo, in tuta, appoggiato a un tavolino da ambulatorio. Non riesce a stare fermo, il suo corpo continua a muoversi, è un fascio di nervi in continua tensione. Le proiezioni (di Luca Brinchi e Daniele Spanò) alle sue spalle sovrappongono immagini di un corpo e della natura che scorre, come soggettive di un corridore. Quando inizia a parlare racconta la sua storia, a partire dal passo più difficile che ha dovuto fare, quello per salire in cima al podio, dopo aver vinto la gara più importante della sua vita. Non c’è soddisfazione o orgoglio, c’è invece la solitudine, la paura di una vita che cambia e quel dubbio lancinante che non lo abbandonerà mai: ma ne è valsa davvero la pena?
Il marciatore è salito su quel podio perché ogni giorno si alza alle sei. Perché mangia insalata e pesce bollito. Perché il suo battito cardiaco a riposo è di 28 battiti al minuto. È un talento o un caso? Quel cuore con cui nasci è quello di un predestinato, di un uomo che può portare la soglia della sua fatica a livelli inaccessibili alla totalità degli altri esseri umani. Un cuore con cui si vince un’Olimpiade o un Tour de France. Un cuore che ci si deve meritare. Anche se non lo si è mai chiesto.
Intrappolato nella routine, nella pressione, nella santificazione di un corpo senza eguali, il nostro protagonista è pronto alla ribellione. Il doping è un grido d’aiuto e una porta aperta verso una vita normale. Questo il paradosso che va cercando Scarpetti nella storia: doparsi non è per forza barare, non è solo il gesto dell’atleta che non sente più di essere all’altezza delle aspettative che in lui sono riposte, ma la ribellione verso il proprio corpo troppo straordinario, il sabotaggio di una vita che non si è scelta, che ci è stata imposta dalla natura, dall’ansia di non sprecare un dono, dalla necessità di essere quello per cui si è più portati.
Giuseppe Sartori è un performer dalla fisicità debordante – un atleta anche lui, anche se di natura forse troppo diversa rispetto a quella dell’uomo di cui racconta la storia – e crea un naturale magnetismo muovendosi sul palco. Scegliere un profilo attoriale del genere è una scelta precisa, che sottolinea come per Scarpetti il cuore della storia sia in questa ribellione, insensata e umanissima, contro il proprio corpo. Si tratta di una lettura originale che si allontana dal filone inaugurato da Agassi in Open, più interessato alla psicologia e sociologia dello sport.
A livello drammaturgico, però, non sempre l’originalità della lettura è sostenuta dalla felicità delle scelte e il personaggio appare caratterizzato in maniera ambigua, con qualche scivolata nel luogo comune, compresa una calata dialettale che pian piano rischia di diventare troppo cantilenante. Alla fine il dramma di questa solitudine scivola sul teatro, senza farcene mai dimenticare l’artificio; e quel protagonista algido, lontano, insicuro, rimane ancora una volta isolato.
Ascolto consigliato
Teatro India, Roma – 17 novembre 2016
(Foto ©Achille Le Pera)