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Un giorno, per caso, Kubrick a Milano

Il sabato, solitamente, ti svegli intorno alle 13. Solitamente, poi, svegli la Metà di Melinda, affinché vada a preparare il caffè. Hai deciso che gli uomini sono come i bambini e vanno responsabilizzati, a piccoli passi. Dal caffè al rassetto il cammino è impervio, ma tu sei fiduciosa e determinata. Ogni sabato mattina la Metà di Melinda oppone resistenza e ti chiede “Lo prepari tu?”. In genere la domanda è talmente pleonastica che non riceve risposta alcuna e, forte del tiramisù o della pasta al forno preparati il giorno prima, resti a letto ad emettere strani versi sospesi tra la veglia e il riposo.

Entro le 13.30 hai già bevuto il caffè, intingendovi un paio di campagnole, anche se lo scorso sabato si trattava di Gocciole, che al dìperdì erano in offerta, pacco da 1 kg sottotitolato alla pagina 777 del televideo con “Facciamoci del male”. Il dìperdì è un piccolo supermercatino vicino casa tua in cui fare la spesa di sussistenza. Contraddistinto dalla frequente e insensata assenza di merce ovvia, come il pollo, il dìperdì ha un prezzo standard. Qualunque cosa ci acquisti, spendi 20 euro. Non importa cosa. Chessò, hai un sacchetto con un dentifricio e una lattina di Coca-Cola Light. 20 €, non ci sono cazzi.
Sabato scorso, contrariamente al solito, una volta emersi dal letargo, tu e la Metà di Melinda avete optato per una passeggiata in centro, piuttosto che per la classica forma d’arte contemporanea pomeridiana altrimenti detta “cazzeggio”.

E così uno strano mondo si è reso manifesto alla tua sensibilità: schiere di individui, tra i più disparati, affollavano operosi il nevralgico baricentro del business milanese. Avevi in mente una destinazione ben precisa: un negozio di ballerine multicolor a soli 29 €, che tu shopping il sabato non ne fai mai e ogni volta che ne fai, ricordi perché non lo facevi più. La jungla delle vagine inferocite, amazzoni dotate di borse di Louis Vuitton alla conquista della scarpa comoda al prezzo conveniente. Autentiche scene di panico metropolitano, carenza d’ossigeno, caos primitivo. E tu, dopo aver chiesto un paio di ballerine “blu antracite” e aver rischiato un meritato linciaggio ad opera della commessa, sei riuscita ad ottenere un democratico 40 rosso (sì, 40, hai i piedi di una contadina dell’entroterra russo, e allora??), che hai calzato non appena emersa dalla trincea consumistica.

Hai, così, preso a passeggiare in prossimità del Duomo per pranzare con i panzerotti di Luini e proseguire con una passeggiata su Via Dante, dove un microscopico raduno del Popolo Viola parlava contro centrali nucleari e privatizzazione dell’acqua. Per quanto trovassi condivisibile ciò che si esprimeva, l’immagine ti risultava in qualche modo triste. Sarà che ad ascoltarli sarete stati in 15 sì e no. Sarà che a Milano la sensibilità socio-politica è pari al senso d’orientamento del Brucaliffo che consuma piantagioni di White Widow con il suo narghilè.

Prosegui il tour per arrivare in prossimità della Scala, dove sarà in visita Giorgino Napolitain, probabilmente per festeggiare la Liberazione, che però è il giorno dopo quindi forse Napolitain vive sul fuso di Bangkok, poverino, non è colpa sua se firma i decreti legge di Silviolo. Napolitain non si è fatto mancare proprio nulla, dagli artificieri, all’unità cinofila. Ai caschi blu. I caschi blu? Certo. Perché un crogiuolo di bolscevichi cinquantenni ha organizzato una manifestazione violenta farcita di black block lirici e musicisti terroristi che suonavano il Nabucco di Verdi mentre il pensiero andava sulle ali dorate delle molotov nascoste nel violoncello e nel trombone. E allora ti sembra che qualcosa non vada bene e ti chiedi perché individui che cantano – e a loro discolpa, non cantano mica Marco Carta -, che esprimono pacifico dissenso, la cui offensiva consiste nell’urlare in coro “La cultura fa paura”, debbano vedersi bloccati da una schiera di fascisti, che forse fascisti non sono nemmeno ma che sicuramente lo sembrano, equipaggiati di caschi e scudi, ginocchiere e manganelli, che non ti è mai ben chiaro se vogliano picchiarti o fare una partita a rugby. Perché il Presidente non deve vederli, nessun disturbo. È tutto così maledettamente inutile, nauseante, stupido e volgare che vai via, presa da mille considerazioni su questa Italia triste, su chi cerca di protestare rantolando, su chi in galleria gira 3 volte su se stesso con il tallone piantato sulle palle del toro sul pavimento. E pensi che siamo questi. A 100 metri di distanza il Presidente della Terra dei Cachi, un’ennesima censura, fatta in faccia alla gente, guardandosi negli occhi che è assai peggio di tutte le altre censure, la puerilità di un potere sfrontato in delirio d’esercizio e questi individui che girano sulle palle del toro, senza sentire le urla, senza sentire i cori e, quel che è peggio, senza sentire la musica.

Prosegui ancora ed arrivi, così, a quella che dopotutto era la meta originale: “Stanley Kubrick Fotografo”. Palazzo della Ragione, in prima mondiale oltre 200 fotografie del giovane genio. Dal 16 aprile al 4 luglio 2010. Una mostra che indaga un volto poco conosciuto del grande regista. Si tratta di scatti realizzati tra il 1945 e il 1950, periodo durante il quale il 17enne Kubrick lavorava per la rivista americana Look. Otto euri e cinquanta sentz per vedere in anteprima 9 photo stories a marchio Kubrick. L’ambiente espositivo è buio e tendenzialmente claustrofobico, nell’intento di modellare lo spazio sulla fruizione narrativa delle immagini in bianco e nero. Gli scatti, infatti, scelgono soggetti diversi per raccontare l’America dell’immediato dopoguerra e, di riflesso, la nascita e la crescita di un genio. Indagini prospettiche, accentuazione di luci e ombre, inquadrature peculiari, a tratti ironiche, da Brooklyn al Portogallo, dal Jazz, al circo, agli orfanotrofi, alle carceri, Kubrick pedina i suoi soggetti per individuare la propria dimensione stilistica ed ottimizzarne la natura.

Tuttavia, la mostra non ti entusiasma. Forse è perfetta per il fanatismo cinematografico, per il feticismo mitico, per chi c’ha l’effige di Stanley tatuata sul pettorale al posto del cuore con scritto “mamma” dentro. Ma, tolto questo, tolto il nome dell’autore, se per un secondo facessimo un tentativo di astrazione, penseremmo che sono belle fotografie e che ci troviamo davanti ad una sorta di marketing del genio, qualcosa che chissà se avrebbe fatto piacere allo stesso Kubrick. E forse nulla di più. Non che tu sia un’esperta, per carità. Parli di quella percezione del bello e del grande che non ti travolge. Per un secondo, allora, ti capita di pensare che non si nasca necessariamente geni, ma che si possa diventarlo, perché l’impressione che hai è che gli scatti che vedi siano niente più che i primi tentativi, per prove ed errori, di chi aveva le potenzialità di diventare Kubrick senza ancora esserlo, senza nemmeno sapere di poterlo diventare.
Kubrick ha lavorato, ha affinato la tecnica e ha sperimentato l’intuito di cui era dotato e queste fotografie, certamente belle, sono solo un gradevole preludio alla successiva magnificenza cinematografica.

Pensi che Kubrick dovesse essere esattamente ciò che è stato: un grandissimo regista, un battito autentico dello spirito del cinema in quanto tale.
Pensi anche che sia stato davvero bravo a saper diventare il genio che noi tutti riconosciamo.
Per il resto, sei convinta che da qualche parte nel mondo esista un fotografo sconosciuto che negli scatti sappia offrire tanta anima in più.


Grazie


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