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Marina Bellezza – Silvia Avallone

Potrà sembrare paradossale, ma la vera ragione per cui vale la pena leggere Marina Bellezza (Rizzoli, 2013) risiede nell’imperfezione che sta alla base dell’ultimo romanzo di Silvia Avallone. Andrea e Marina sono i protagonisti di una storia d’amore tormentata sullo sfondo delle valli Biellesi, colme di fascino e desolazione al contempo nella descrizione che l’autrice ci fornisce della loro natura selvaggia e atavica.

La storia dei due protagonisti di Marina Bellezza ha origine in un contesto ostile – innanzitutto familiare –, per proseguire in un gioco al massacro cui Andrea e Marina consacrano le loro vite che paiono rifiutare di accettare l’ingiustizia del reale. Due caratteri opposti, due vocazioni opposte: lei votata al canto e all’ammirazione del pubblico, lui al mestiere di margaro e alla sua personale rivoluzione contro una società che ha lasciato i giovani in balìa della disperazione e reso gli adulti prigionieri della rassegnazione più totale.

Fatta eccezione per alcuni rari momenti di estasi e supposta felicità subito disillusa, il rapporto tra i due protagonisti procede, ciclicamente e ineluttabilmente, per il verso sbagliato. Essenzialmente perché la loro generazione è «una generazione tagliata fuori da tutto, nata nel posto sbagliato al momento sbagliato. E allora tanto valeva ritirarsi sul confine. Tornare indietro, disobbedire». Questa è la scelta di Andrea che decide ostinatamente di consacrarsi a un lavoro massacrante ritirandosi nella solitudine e nell’asprezza delle montagne, lontano da una famiglia che non l’ha mai amato, da una società che lo ha spesso disgustato e soprattutto da una donna che, «nel suo metro e settantacinque d’inutile bellezza», non smette mai di essere per lui l’origine della felicità più pura e autentica, come della disperazione più profonda e lancinante. Tutto ciò perché l’essenza stessa di Marina Bellezza – un misto di rancore, insolenza ed estrema fragilità – coincide con la «natura indecifrabile dei [suoi] istinti», scissa tragicamente tra il desiderio di gloria e autoaffermazione e la volontà di «rimanere sconosciuta per sempre» e preda di «un’oscura felicità nel buio [della] desolazione».

Lontano dalla perfezione di Acciaio (Rizzoli, 2010), Marina Bellezza riprende tuttavia dal primo, splendido romanzo di Silvia Avallone l’attaccamento alla dimensione più inesplorata, selvaggia e imperfetta del reale, così come la forma solida del linguaggio e vivida della scrittura, in grado di materializzare innanzi al lettore le caratteristiche salienti dei personaggi. Al tempo stesso, viene a perdersi talvolta la credibilità del personaggio di Marina, così volubile a tratti nella sua caratterizzazione da finire per allontanarsi dalla sfera di empatia col lettore. Cosa che ad esempio non accade in Acciaio, dove l’imperfezione dei personaggi è gestita con tale abilità ed eleganza narrative da imprimersi in maniera indelebile nell’immaginazione di chi legge.

Detto questo è anche vero che, durante la lettura di Marina Bellezza, si finisce per adattarsi all’imperfezione del romanzo come Marina fa d’altronde nei confronti della vita: «perché l’imperfezione della vita è il cuore della vita stessa, e scava, e lavora implacabile dall’interno, si frappone tra noi e la nostra volontà, divora come il torrente».

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