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Il primo re

Una rivisitazione storica e attinente del mito, un film sulla natura e sulla natura umana.

Animo atque peritia Matteus Roboreus exiguis cum verbis cuius vetusti ac obliti quantopere fabulae latae Urbis condita sermonis, in natura atque del humana natura, imaginem moventem “primus rex” direxit. Benché la lingua scelta nel film faccia riferimento al latino arcaico, frutto di attente ricerche in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma, e non a quello classico studiato a scuola, ne Il primo re, scritto, diretto e prodotto da Matteo Rovere, le vostre orecchie si abitueranno ben presto ad una dimensione linguistica di altri tempi. Un espediente sottotitolato azzardato ma ben riuscito. I dialoghi, uguali per tutte le platee, siamo tutti barbari nessuno escluso, sono ridotti all’essenziale. Siamo per fortuna ben lungi dalle arringhe del foro, niente di personale, ma non sarebbe stato attinente sentire un capraio usare l’eloquentio dialettica.

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Un film senza precedenti italiani. Dimenticate le ricostruzioni mastodontiche, l’uso esagerato di comparse e i divi-attori in peplum sempre impeccabili. Lasciate perdere la stagione dei sandaloni e quella concezione che per parlare di miti o altro bisognasse eguagliarli mostrando altrettanto. Ne Il primo re troverete solo fango e natura incontaminata, uomini che vivono per lo più chini, parrebbe per paura o furtività o per istinto animale primordiale, tutto quello che cercano si trova nella nuda terra. Un film sulla natura e sulla natura umana. Una natura madre, che offre ai suoi figli i propri frutti, ma che non va fatta arrabbiare o sfidata. Essa è dipinta come quadro di tutto, casa sicura o pericolosa compagna di viaggio. Il film è ambientato tutto in esterno. Natura, capace di eleggere un capo facendogli uccidere un cervo o di spazzare via tutto come un fiume che rompe gli argini. Sempre con la foschia o la nebbia da i cui buchi, tra i rami, i raggi del sole guidano questi uomini in costante ricerca e scoperta con un andazzo incerto di costante guardia. Quando cala la sera, l’ignoto. Solo il fuoco risolve. Il fuoco rappresenta per l’uomo l’unica cosa di cui fare esperienza o poter controllare in natura. Una sfida agli dei di cui altri, in passato ne pagarono il prezzo. Una natura umana, che mostra uomini semplici, dove chi teme o rispetta questo grande disegno ignoto e dove invece vi è chi sceglie di alzarsi dritto artefice del proprio destino. Uomini che imparano a camminare dritti, chi per sfida, chi per farsi carico della collettività, dove il branco è sicurezza e unità o sfruttamento e potere.

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Una storia di amore fraterno, dove Romolo e Remo, da semplici caprai vengono proiettati senza volerlo in un disegno più grande di loro, dove il fato, li spazza nel posto giusto al momento sbagliato. Un fato umano di azioni e conseguenze dove le credenze personali portano a fare delle scelte che li eleggeranno a guida dei propri valori tanto diversi da non poter coesistere insieme in vita. Il fuoco sacro o fuoco tout court che fonde il loro destino prima insieme in fraterna indissolubilità poi in fratricida esigenza.

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Un film molto ambizioso e dai tempi naturali che con sangue e fango, dà una rivisitazione storica e attinente di un mito, forse mai esistito, dove assistiamo alla natura incontaminata e  a uomini alla mercè del proprio destino. Userei l’alba come parola chiave. Un’alba storica, quella di un mito che si chiamerà Roma. Un’alba del libero arbitrio di uomini forti sopra qualsiasi credenza. Un’alba dell’unione di un popolo che caccia insieme per sopravvivere. Un’alba metaforica, momento dove il buio termina il suo predominio e fa spazio ai raggi de sole di una nuova era. Un’alba personale, che rincuora gli uomini impauriti dalla notte, con la luce o il calore del fuoco. Un’alba luminosa della natura, antitesi della paura del crepuscolo prima delle incertezze della notte buia.

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