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Agnès Varda e le giornate di una scrutatrice

Varda riflette sull'urgenza del tempo, fotografando oggetti e raccattando residui d'esistente, volti e villaggi.

Tempo fa si faceva così: tavolozza alla mano, desiderio di conoscere la realtà per quella che era e ci si incamminava per rintracciare volti ed esperienze sconosciute, attraversando la Francia delle campagne, dei borghi remoti, dei pastori, dei greggi e del lavoro dei contadini, per far sì che nulla di quell’arcana purezza si perdesse negli incavi della memoria collettiva. E non è un caso che Agnès Varda, per uno dei suoi ultimi documentari, tragga ispirazione proprio da un dipinto di Jean-François Millet: in Les glaneurs et la glaneuse (2000) è come se «l’epopea dei campi» di Millet, con le sue spigolatrici e l’estrema cura adottata nel rappresentare i particolari della loro quotidianità, dall’alba al tramonto del loro lavoro, rivivesse nei raccoglitori di campagna cui la Varda sceglie di dar voce e respiro, in una società dove la dimensione agreste sembra quasi non esistere più.

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Le spigolatrici (Jean- Francoise Millet, 1857)

Già da Clèo dalle 5 alle 7 (1962), la preponderanza dell’immagine, le vite interiori, gli sguardi in macchina che lasciano intuire, silenti, la nostra presenza sono le componenti di un cinema “totalmente, teneramente e tragicamente” sull’altro e per l’altro da sé, di cui madame Varda si fa carico. Il centro nevralgico è sempre un individuo, in tal caso Clèo, o la libertà senza condizioni di Mona Bergeronf in Senza tetto né legge (Sans toit ni loi, 1985) ma non si smette mai di guardare altrove; nell’anima da scrutatrice della cineasta belga c’è quest’urgenza del tempo, di investirne al meglio ogni giorno, ora o minuto, fotografando oggetti e raccattando (dal francese glaner, ovvero “spigolare”, raccogliere, recuperare) residui d’esistente, volti e villaggi.

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Senza tetto né legge (1985)

Visages, villages (2017) non è altro che l’estensione dell’idea che sta a fondamento di tutta la concezione artistica ed esistenziale di Agnès Varda, una commovente inchiesta che nel suo aprirsi a una cornucopia di piccoli mondi, finisce sempre per ritornare sull’ esperienza di chi ha dato inizio al viaggio. Visages, villages è un’opera che acquisisce dignità e splendore nel suo dispiegarsi davanti agli occhi dello spettatore, uno sguardo sincero su realtà che si credevano estinte in cui ad aver ragion d’essere sono l’umano e l’umanità, senza distinzione alcuna. Sia la Varda che JR sono animati dal bisogno di rivitalizzare una Francia invisibile, congiungendo il proprio e l’altrui tempo perduto attraverso l’immagine, incollando istantanee di volti, occhi e piedini prima che le maree di quello stesso tempo si portino via tutto. Da un punto di vista stilistico, coadiuvata dalla particolarità di JR, dal suo modo di rendere la fotografia, e specialmente la ritrattistica, conforme alla contemporaneità, ibridando antico e nuovo senza mai risultare vanesio o oltraggioso – ne è l’esempio l’istallazione di centinaia di ritratti in bianco nero al Pantheon di Parigi – la Varda arriva a una nuova forma di manifestazione artistica, riadattando tutta l’esigenza di realismo che l’ha sempre caratterizzata in chiave postmoderna, potremmo dire: se l’artista è un ricettacolo di emozioni che vengono da ogni luogo, dal cielo, dalle strade, dalle fabbriche, dalle persone, allora l’operazione sua e di JR è riuscita.

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